Cibi crudi: più vitali e nutrienti di quelli cotti


Una forchettata di spaghetti fumanti appaga la gola ma non il nostro corpo. Mentre mastichiamo, soddisfatti, qualcosa si scatena nell’organismo: migliaia di globuli bianchi. I “soldatini” del sistema immunitario umano, accorrono in massa contro il “nemico”. Un bel boccone di pesce alla griglia, ben cotto, o una forchettata di spaghetti fumanti finisce fra le nostre "fauci" con immenso godimento. Il nostro cor­po, però, a quanto pare non trae uguale piacere. Men­tre mastichiamo soddisfatti, qualcosa si scatena nell’organismo: migliaia di globuli bianchi, I "soldatini" del sistema immunitario umano, accorrono in massa contro il "nemico". Il nemico può essere anche un pezzo di pane, o una fetta di torta, un piatto di riso, o un hamburger, in­somma un qualsiasi alimento che ha subito il pro­cesso di cottura. Ma perché la nostra perfetta macchina di difesa si mette in moto? Ad ogni ingestione di tali alimenti, il nostro organi­smo reagisce con un'iper-produzione di leucociti (detta "leucocitosi"), perché considera "innaturale" e "pericolosa" ogni materia vivente sottoposta a quel­la radicale trasformazione molecolare che avviene con la cottura. Una mela, una carota o qualsiasi altro vegetale o frutto crudo sono invece accettati senza la rea­zione immunitaria dei globuli bianchi, che provocano ogni volta un enorme dispendio d'energie vitali.

A fare questa importantissima scoperta fu il Dottor Kouchakoff, medico di Losanna, che, dopo venticinque anni di sperimentazioni su migliaia di persone e su sé stesso, nel 1937 pubblicò il risultato delle sue ricerche nel saggio Nouvelles lois de alimentation humaine, basees sur la leucocytose digestive. Parallelamente a Kouchakoff, il medico italiano C. Lusignani, dell'Università di Parma, nel 1924 aveva già pubblicato un prezioso lavoro sulla leucocitosi digestiva, arrivando a conclusioni simili. In effetti, Lusignani si era occupato del meccani­smo fisiologico che innesca o sospende la leucocito­si digestiva, dimostrando che le variazioni leucocitarie successive all'ingestione dell'alimento sono dovute a meccanismi nervosi centrali e perife­rici che, regolando il calibro vasale, determinano, at­traverso fenomeni di vasocostrizione o di vasodilatazione, l'aumento o la diminuzione dei leucociti. I globuli bianchi, in sostanza, "programmati" per difendere da corpi estranei a noi dannosi, aumenta­no di numero in caso d'ingestione di cibi cotti. Al contrario, il nostro organismo reagisce con un rilassamento delle pareti vasali (e una conseguente diminuzione dei globuli bianchi, o leucopenia) in caso d'ingestione di cibo crudo, non considerato dannoso dall'"intelligenza del corpo". Come dice il prof. Businco, dell'Università di Roma, "la vita è cruda, perché tutti I processi biolo­gici si svolgono in ambiente naturale, nei limiti della temperatura alla quale le cellule e I tessuti svolgono le loro attività vitali". Il corpo sa riconoscere ancora perfettamente, dopo alcuni millenni di "deviazione alimentare", I cibi "vivi" (quelli che gli consentono di mantenere inte­gro il suo capitale di "vitalità") da quelli "morti". "Vivi" sono gli alimenti crudi, che conservano intatto il loro corredo di "fattori vitali": vitamine, pro­teine, sali minerali, enzimi, ormoni, essenze volatili, antiossidanti naturali, biostimoline, complessi anti­biotici, ecc. Alimenti "morti", invece, non sono solo I cadaveri di altri animali, ma anche le verdure, la frutta e I ce­reali cotti. Tutti I cibi (fatti di materia organica, come noi), se sottoposti ad elevate temperature (come quel­le che usiamo per friggere, arrostire, bollire, ecc.) subiscono trasformazioni chimiche irreversibili. Le proteine, ad esempio, hanno un decadimento del loro valore biologico, dovuto alla distruzione parziale (e a volte totale) degli aminoacidi essenziali. La bol­litura, in particolare, provoca l'idrolizzazione dei composti proteici e la susseguente dispersione nel mezzo liquido. Se poi la cottura avviene mediante arrostimento o tostatura, le proteine si denaturano, producendo sostanze tossiche da piroscissione, al­cune delle quali notoriamente cancerogene (il benzopirene, il benzoantracene, il perilene, ecc.). At­tenti dunque al famigerato barbecue e al caffè (I cui grani, prima di essere macinati, sono tostati). Altre "vittime eccellenti" della cottura-killer sono le vitamine, che ad alte temperature vengono per la maggior parte denaturate o distrutte irrimediabilmen­te. La clorofilla, linfa vitale delle piante verdi, subisce invece la degradazione a feofitina, di colore bruniccio, assolutamente inutilizzabile dall'organismo. Cuocere non significa quindi rendere più digeribile un alimento, perché, come abbiamo visto, durante questo processo I composti proteici iniziano a flocculare già a 60 gradi e finiscono per coagulare del tutto a temperature maggiori, essendo inattaccabili dai succhi gastrici. Ma, allora, I presunti vantaggi della cottura? Ad un attento esame, non ce ne sono. È pur vero che gli alimenti cotti si prestano di più a manipolazioni e all'aggiunta di condimenti "ricchi" o speziati (pro­prio perché hanno perso il loro sapore iniziale), ma ciò travalica dalle giuste necessità nutrizionali e ap­partiene al campo di quelle "distorsioni del gusto", indotte dalla "civilizzazione". Dopo aver rivelato cosa succe­de nel nostro organismo ogni qualvolta ingeriamo un cibo cotto (di qualsiasi natura, vegetale o animale) e perché gli alimenti crudi debbano considerarsi "vivi" (in altre parole depositari di tutto il corredo vitaminico, protei­co, enzimatico, ecc.), mentre quelli sottoposti a cot­tura sono ritenuti "morti", siccome subiscono tra­sformazioni chimiche irreversibili che, oltre ad im­poverirli sul piano bionutrizionale, in alcuni casi ge­nerano sostanze cancerogene, bisogna ora aggiungere un dato sicuramente rilevante, il fatto, in pratica, che l'uomo, sebbene faccia cuocere i suoi alimenti da alcune decine di migliaia d'anni (mentre per milioni d'anni è stato "crudista") non ha sviluppato altresì alcun adattamento anatomofisiolo­gico all'alimento cotto, che continua ad essere rifiu­tato dall'organismo mediante l'azione di rigetto det­ta "leucocitosi digestiva" (cioè iper-produzione di glo­buli bianchi). Ad oltre ottanta anni da questa scoperta, fondamen­tale per capire come si comporta il nostro corpo in caso d'alimentazione innaturale, si continua a far di tutto per non divulgarla, con un silenzio che ha pre­miato i giganti multinazionali dell'alimentazione pre­cotta, in scatola, "sofisticata" e colorata. L'uomo è l'unico animale che sottopone a cottura i cibi, erodendo così il suo capitale energetico (poiché, la leucocitosi rappresenta un elevato dispendio di vitalità) e obbligando il proprio organismo ad un doppio sforzo per ritrasformare in materia vivente ciò che lui stesso ha distrutto con l'elevata temperatura. È stato calcolato - dall'ingegnere francese Andrè Simoneton - che le radiazioni emesse dal corpo di una persona sana si aggirano, in media, sui 6.500 Angstrom, mentre in condizioni di malattia o di cat­tiva alimentazione scendono sicuramente di sotto a tale livello. Gli alimenti possono pertanto dividersi in tre princi­pali categorie: l) alimenti "morti" - cibi cotti o conservati, margarina, pasticceria industriale, alco­ol, liquori, zucchero - che hanno radiazioni nulle o pressoché nulle; 2) alimenti "inferiori" - carne, salu­mi, uova non fresche, latte bollito (quello "industria­le" che beviamo oggi), caffè, tè, cioccolato, mar­mellate, formaggi, pane bianco - che hanno radiazio­ni inferiori a 3.000 Angstrom; 3) alimenti "superio­ri" o "sani" - frutta fresca (cruda e matura), verdura (cruda e fresca) e germogli, che hanno radiazioni molto elevate, tra gli 8.000 e i 10.000 Angstrom. L'alimento vegetale "vivo" (cioè crudo), fresco e maturato sotto l'azione dei raggi solari, è, infatti, il punto d'arrivo di una serie di processi di concentra­zione di tutte quelle energie che lo hanno dapprima generato, poi fatto crescere e infine portato a matura­zione. Tali energie, ovviamente, si liberano e vengo­no poi assimilate dal nostro organismo ogni qual volta mastichiamo e ingeriamo un frutto o un vegetale cru­do: dall'energia alla materia e dalla materia all'ener­gia, semplicemente. Viene da chiedersi, ora, come mai l'uomo abbia abbandonato ad un certo punto della sua preistoria l'ali­mentazione a lui fisiologicamente adatta, quella vegetariana e crudista, e si sia dato alla cottura indi­scriminata dei cibi, iniziando con la carne e passando poi a tutti gli altri. Ragioni di forza maggiore, pare, obbligarono i no­stri progenitori a cambiare dieta. I paleoantropologi concordano nel ritenere che la Terra, durante la preistoria dell'uomo, soffrì enormi sconvolgimenti climatici e geologici, i quali trasfor­marono profondamente gli ecosistemi del pianeta. Glaciazioni, interglaciazioni, periodi d'eccessivo ina­ridimento o d'insolita piovosità alterarono i biomi vegetali da cui l'uomo traeva il proprio nutrimento. Durante l'ultima glaciazione, avvenuta tra i 200.000 e i 120.000 anni fa nel periodo dell'Era Quaternaria chiamato Pleistocene, i ghiacci avanzarono tanto che gran parte delle foreste eurasiatiche furono distrutte. L'Africa, nel frattempo, era flagellata da inten­sissime precipitazioni, seguite poi da un periodo d'eccessivo inaridimento del clima, che fece scompa­rire gran parte delle foreste. La savana, gialla, assolata, semi arida, prese in molte zone il posto dell'intricato e ombroso ammasso ve­getale che aveva fino allora ospitato e nutrito l'uo­mo. Da "scimmia d'ombra" - come dice il prof. Marcello Comel, illustre clinico e scienziato dell'università di Pisa - "vissuta per milioni d'anni sugli alberi...[l'uomo] vagò per altri milioni d'anni nella savana". E che nutrimento poteva trovare nella savana? Prevalentemente i frutti secchi, piccoli e duri delle graminacee spontanee (soprattutto frumento e orzo), che crescono negli spazi aperti, e necessitano di luce solare diretta. Alla dieta a base di graminacee, insufficiente dal punto di vista nutritivo, l'uomo aggiunse ciò che gli offriva il nuovo habitat, e cioè la carne degli animali della savana. Non avendo le caratteristiche anatomofisiologiche del granivoro, né tantomeno del carnivoro, l'uomo, per rendere commestibile il cereale e il cadavere di altri animali, dovette ricorrere alla cottura, che in se­guito fu estesa, inspiegabilmente, a tutti gli altri ali­menti. L'alimentazione granivora e carnivora rappresenta dunque una vera e propria "deviazione fagica" non dettata da una scelta, ma da uno stato di pura necessi­tà che non offriva alternative. Contravvenendo agli istinti alimentari biologica­mente connaturati con la propria specie, l'uomo det­te inizio alla sua degradazione e degenerazione fisio­psichica, i cui disastrosi effetti sono, oggi più che mai, evidenti. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, l'uomo non è diventato "più sano, più alto, più forte" da quan­do (circa 10.000 anni fa) ha cominciato a dedicarsi all'agricoltura. Tutt'altro. La paleopatologia, una disciplina relativamente nuo­va che studia le malattie di cui soffrivano i nostri an­tenati, sta sovvertendo molti luoghi comuni. Ad esem­pio quelli che riguardano la statura: gli scheletri de­gli uomini preistorici vissuti in Grecia e in Turchia verso la fine dell'era glaciale erano alti in media 175 centimetri, mentre 5.000 anni fa (dopo l'adozione dell’agricoltura) la statura era scesa a 160 cm. E inoltre ogni cultura ricorda i propri "Matusalemme" e i propri "Noè", gli ultracentenari degli albori del mondo, cioè quando l'uomo era an­cora "fruttariano" e "crudista". Oggigiorno, non più la necessità di procacciarsi il cibo, ma errate abitudini, pregiudizi dietetici, e, soprattutto, la schiacciante pressione dell'industria ali­mentare - con tutti i suoi condizionamenti pubblici­tari - fanno sì che l'uomo, non più guidato dall'istin­to (ormai perduto), stenti a ritrovare razionalmente la strada della corretta alimentazione crudista.

I cibi crudi (frutta, germogli, verdura e semi oleosi) sono alla base di MRA - il Metodo René Andreani: prevenire anziché curare, vivendo la filosofia nutrizionale “SloWater”.

Ulteriori informazioni www.vegetarian.it

René Andreani